La “cistite interstiziale” è una condizione che non può e non deve essere considerata una mera patologia vescicale, essendo i sintomi riferiti alla vescica solo un’aspetto di una più complessa sindrome da dolore pelvico, con una fisiopatologia neuroviscerale predominante.

.

La prevalenza nel sesso femminile, la presenza di auto-anticorpi diretti contro i recettori M3 muscarinici e l’associazione con altre patologie immuno-mediate, soprattutto la S. di Sioegren, ipotizzano un fattore etiologico autoimmune, di tipo neurologico, che apre nuove possibilità terapeutiche, finora impensate, per questa condizione morbosa così fortemente invalidante e ancora poco conosciuta.


l Papilloma Virus Umano o HPV (acronimo di "Human Papilloma Virus" ) è un virus appartenente alla famiglia delle Papillomaviridae e al genere Papillomavirus.

Esistono numerosi ceppi di Papilloma Virus, attualmente ne sono stati identificati oltre 120, ma si presume che il numero di genotipi sia in continua crescita, classificati in 16 gruppi designati progressivamente con le lettere da A a P in base alle omologie di sequenza del DNA. È possibile classificare i papilloma virus in cutanei (prevalentemente HPV di tipo Beta) e mucosi (prevalentemente di tipo Alfa) in base al sito d’azione su cui esercitano il loro potere patogeno. Ampiamente distribuiti nella popolazione, sono virus a trasmissione prevalentemente sessuale.


Epidemiologia

L’infezione da Hpv è estremamente frequente nella popolazione: si stima, infatti, che almeno il 75% delle donne sessualmente attive si infetti nel corso della propria vita con un virus Hpv di qualunque tipo, e che oltre il 50% si infetti con un tipo ad alto rischio oncogeno.

In Italia, studi condotti in donne di età tra 17 e 70 anni, in occasione di controlli ginecologici di routine o di programmi di screening organizzato, mostrano una prevalenza per qualunque tipo di Hpv compresa tra 7 e 16%. La prevalenza aumenta al 35-54% in caso di donne con diagnosi di citologia anormale, per raggiungere il 96% in caso di displasia severa o oltre. La prevalenza delle infezioni da Hpv varia con l’età: è più elevata nelle giovani donne sessualmente attive, mentre un secondo picco di prevalenza si nota nelle donne intorno alla menopausa o dopo. Uno studio condotto nell’Italia settentrionale in donne tra 25 e 70 anni ha mostrato come la prevalenza diminuisca dal 13-14% nella fascia di età 25-39 anni, all’11% nelle donne tra 40 e 44 anni, e al 5% nelle donne oltre i 44 anni.(1)


Struttura:

Gli HPV sono virus nudi (senza pericapside), possiedono un capside icosaedrico con un diametro attorno a 50 nm, formato da 72 capsomeri che possono essere pentameri o esameri. Ciascun capsomero dà origine a una protuberanza che ha una forma simile a una stella a cinque punte con un canale al centro. Il capside contiene un genoma costituito da DNA circolare a doppio filamento lungo 8 Kb che codifica per otto geni precoci (early, da E1 a E8) e due geni tardivi (late, L1 e L2). A monte dei geni precoci c'è una regione regolatrice contenente l'origine della replicazione, alcune sequenze regolanti la trascrizione e una sequenza N-terminale comune a tutte le proteine precoci.(2) Mentre le tardive sono le proteine strutturali, che associandosi tra loro formano la struttura icosaedrica del capside virale, le proteine precoci servono a modificare il metabolismo della cellula infettata per metterlo al servizio dell'HPV, e più specificatamente:


• La proteina E1 consente la replicazione episomale, con attività di elicasi

• La proteina E2 gioca un ruolo fondamentale nella regolazione della trascrizione virale e nella replicazione del DNA virale. In particolare la trascrizione di E2 inibisce E6 ed E7; quando il DNA di HPV si integra con il genoma umano si ha la rottura delle sequenze geniche di E2, con soppressione dell'inibizione nei confronti di E6 ed E7.(3)

• La proteina E4 è espressa nelle fasi tardive dell'infezione ed è molto importante nella maturazione e proliferazione virale. È in grado di legarsi alle proteine citoscheletriche, provocando la deformazione delle cellule infettate (coilocitosi).

• La proteina E5 inibisce l'apoptosi e blocca l'esposizione dei complessi di istocompatibilità di tipo I e II, evitando la risposta cellulare T mediata.

• La proteina E6 si lega a p53, interferendo con la riparazione del DNA e con l'innesco dell'apoptosi.

• La proteina E7 si lega alla proteina del retinoblastoma (Rb), impedendo il blocco del ciclo cellulare.(4)(5)



Proteine oncogene:

Le proteine precoci del virus hanno lo scopo di favorire la crescita e la divisione della cellula; l'HPV può infatti replicare solo nelle cellule in replicazione, in quanto non codifica per una sua DNA polimerasi e ha bisogno della polimerasi della cellula ospite, che viene sintetizzata nelle cellule in attiva divisione. Le cellule bersaglio del virus sono la cute e le mucose, due tessuti che si rigenerano in continuazione. In virtù delle loro proprietà leganti ed inattivanti oncosoppressori come p53 e Rb, le proteine codificate dal genoma virale promuovono un'intensa replicazione cellulare che esita verso la formazione di papillomi, condilomi acuminati, verruche e carcinomi, a seconda del tessuto infettato.


E’ ormai ampiamente dimostrato dall’evidenza scientifica che 12 tipi di Papilloma virus, definiti “ad alto rischio”, HPV 16, 18, 31, 33, 35, 39, 45, 51, 52, 56, 58 e 59, sono i responsabili della maggioranza di carcinomi della cervice uterina, dei quali il 16 e il 18 in assoluto i più frequenti. Provengono tutti dalla famiglia degli alfa-Papillomaviridae e sono classificati come 1A carcinogenetici. Nuovi studi hanno però evidenziato altri 7 tipi, HPV 26, 53, 66, 67, 68, 70 e 73, riscontrati in rari casi di Ca alla cervice, classificati, perciò, come 2B (possibile carcinogenicità).(6)

Gli altri tipi di HPV,6, 7, 11, 42, 43, 44, 46, sono definiti “a basso rischio”, causa di verruche cutanee, condilomatosi genitali e papillomatosi ricorrenti respiratorie. Inducono la crescita degli strati basale e spinoso dell'epidermide (acantosi) o dello strato superficiale della mucosa, dando origine, a seconda del luogo dell'infezione, a verruche nella cute o a papillomi nelle mucose. I condilomi sono delle escrescenze mucose di tipo verrucoso che colpiscono di preferenza le zone genitali, sia nel maschio (glande, corpo del pene, scroto e ano) che nella femmina (perineo, vulva, vagina e cervice uterina).

Comunemente considerati non pericolosi, in realtà esistono numerosi studi che evidenziano come gli stessi siano stati trovati in neoplasie dell’epitelio faringeo, laringeo, esofageo e in carcinomi ano/genitali a cellule squamose.(8)(9)/10)


HPV e risposta immunitaria:

La infezione da HPV, sebbene generi una risposta anticorpale, costituisce un bersaglio sfuggevole per il sistema immunitario e solitamente le risposte immunitarie sono deboli. Numerosi meccanismi sono coinvolti e contribuiscono a tale evasione:


1) l’ HPV non è citopatico, ossia i virus non determinano lisi cellulare come ad esempio gli herpesvirus; causano proliferazione cellulare piuttosto che distruzione cellulare e come tali non inducono una risposta infiammatoria.

2) La fase viremica dell’infezione è sostanzialmente irrilevante ed analisi effettuate su campioni sierologici di donne HPV positive o portatrici di lesioni cervicali HPV correlate, hanno confermato che nel 20-50% dei casi non sono raggiunti livelli anticorpali dosabili. Il virus penetra nell’epitelio generalmente tramite una soluzione di continuità della cute e quindi infetta le cellule basali e parabasali replicandosi nei loro nuclei.


La maturazione dell’epitelio porta in superficie le cellule contenenti il virus, che divengono a loro volta infettanti. Il tempo che generalmente intercorre tra il momento dell’infezione ed il rilascio delle cellule replicanti il virus (infettanti) è di circa tre settimane. Il periodo invece intercorrente tra l’infezione e la comparsa delle prime lesioni può variare da alcune settimane a qualche mese

3) Il fatto che l’ HPV infetti solo le cellule epiteliali riduce le capacità del sistema immunitario. I virioni completi di HPV si trovano solo nelle cellule squamose completamente differenziate, a livello degli strati più esterni dell'epitelio genitale, separati da vari strati di epitelio mucoso dai centri germinativi linfocitari presenti nella sottomucosa ed implicati nel generare la riposta immunitaria.

4) l’HPV impedisce il riconoscimento da parte del sistema immunitario innato mediante il blocco della produzione di interferoni per garantire la sua replicazione. Questo è ottenuto mediante la produzione delle due proteine precoci E6 ed E7, che si legano ed inattivano gli intermediari nella cascata degli interferoni.(11)

5) La proteina E7 incrementa, inoltre, la produzione di IL-18BP (IL-18 binding protein), una citochina anti infiammatoria, naturale antagonista dell’IL-18, che media l’attivazione dei linfociti CD4+. Ciò comporta una riduzione dell’espressione di tali linfociti attivati. (12)

Questo fa’ sì che sia impossibile determinare un’avvenuta infezione da parte di questo virus tramite ricerche sierologiche. Le uniche metodiche in grado di farlo sono citologiche: il test di Papanicolau, comunemente noto come Pap-test, e l’HPV test.


Mentre il pap-test tradizionale si basa sull'esame microscopico di cellule epiteliali prelevate dalla cervice uterina, l'HPV Test è un'indagine molecolare che si basa sulla ricerca del DNA, dell'm-RNA o di proteine specifiche virali direttamente in queste cellule. La ricerca del DNA virale può essere effettuata anche nell'uomo su campioni di sperma ed urine o tramite tampone uretrale.

Una paziente è considerata positiva al pap-test, pertanto meritevole di ulteriori approfondimenti diagnostici (colposcopia ed eventualmente biopsia mirata), quando l'esame microscopico rileva anomalie cellulari suggestive di una possibile infezione da HPV. Durante un esame molecolare, invece, il laboratorio identifica direttamente l'infezione ricercando e tipizzando il materiale genico del virus.


Rimane ancora controversa la questione se i tipi di HPV oncogeni mostrino una persistenza di infezione superiore a quella dei non oncogeni. Ad aggiungere problematicità alla questione esiste il fatto che non c’è consenso riguardo alla definizione di infezione persistente da HPV, anche se qualche studio indica come persistente quell’infezione ritrovabile in due consecutivi prelievi a distanza di 6 mesi .(14) D’altra parte, non è chiaro, quando non si riesce più a rilevare l’HPV, se esso sia stato rimosso dall’organismo oppure sia latente nelle cellule epiteliali, a livelli non rilevabili. In questo caso, una riattivazione sarebbe possibile.


Il compianto Dr. Mario Sideri, direttore Unità preventiva ginecologica dello IEO, recentemente e prematuramente scomparso, in aperta e continua diatriba con il collega Prof. Carlo Liverani, Oncologia e Ginecologia Preventiva Clinica“L.Mangiagalli”, auspicava la sostituzione del Pap test, ritenuto ormai obsoleto, con l’HPV test, quale test di screening per la diagnosi precoce di infezione da Papilloma virus umano nelle donne in età fertile.

Questo è quanto il dr Sideri affermava:

“Dal punto di vista scientifico non ci sono dubbi: al di qua ed al di là dell’atlantico il pap test annuale non è più il punto di riferimento; la letteratura degli ultimi 10 anni parla chiaro; per quanto riguarda l’Italia tra l’altro è appena uscito il rapporto HTA sull’introduzione del test HPV al posto del pap test nello screening da parte del ministero. Ma i ginecologi sono contrari; non è che sono in dubbio, sono proprio contrari.

Andiamo a prendere i dati: il pap test perde circa il 25-30% dei CIN3. Non sono pochi, sono alcune centinaia di migliaia in Italia ogni anno su 9 milioni di pap test; non solo, ma è dimostrato che la mancata diagnosi di questi CIN3, comporta lo sviluppo di alcuni tumori, che il pap test non può identificare; neppure facendo il pap ogni 6 mesi; in IEO l’80% dei tumori che osserviamo ha un pap test negativo eseguito nell’anno precedente.

Fare il test HPV significa poter identificare le donne con HPV persistente che sono a rischio di tumore con pap negativo nonostante si controllino regolarmente. Infatti in queste donne, con HPV positivo per 12 mesi (due test a distanza di un anno) si esegue una colposcopia.

Il test HPV salva delle vite che il pap test invece perde.

Tutti avrete sentito qualche caso di tumore con pap negativo l’anno prima; certo, sono pochi: ma non così rari. Il test HPV previene questi tumori e porta un vantaggio di salute alle vostre pazienti; il test HPV è un diritto irrinunciabile delle donne”


Le argomentazioni del prof. Liverani, per contro, si basano principalmente sul rischio, con l’HPV test, di “over traitment”:


“L’uso inappropriato di questi test aumenta considerevolmente i costi, senza apportare benefici e causando potenzialmente sovratrattamenti in donne altrimenti

sane. Non solo questi potenziali sovratrattamenti possono risultare dannosi, ma

anche e soprattutto non risolvono il problema, in quanto le recidive (o forse persistenze?) saranno inevitabilmente frequenti.


L’esperienza clinica sembra dimostrare che l’efficienza diagnostica e della successiva terapia di un’eventuale lesione sono il risultato di una costanza di osservazione.

Solo apparentemente lo screening episodico risulta più efficace: occorre tenere presente che se si eseguono “n” test in una popolazione “finita” ogni “tot” anni, si rileva un maggior numero di casi inizialmente, ma il distanziamento dei successivi ricontrolli provoca sia un minor recruitment di casi persi al primo filtro, sia un mancato rilevamento di lesioni ex-novo oppure molto piccole che si sviluppano nell’intervallo. Il Pap test infatti funziona molto bene se “ripetuto”: 10 Pap test fra i 30 ed i 50 anni comportano un rischio di mancare una lesione inferiore allo 0,001%.”


La posizione del dr. Sideri sembra molto condivisibile, anche considerando il rapporto costi/benefici, dato che se venisse confermato come test di screening tra la popolazione femminile tra i 21 e i 65 anni il richiamo sarebbe di 5 anni, contro i 3 attuali del Pap-test.

Suppongo che ogni donna interessata alla sua salute preferirebbe essere a conoscenza di un’avvenuta infezione, anche in assenza di lesioni visibili, o meglio prima che le stesse si evidenzino, e sicuramente vorrebbe sapere, qualora fosse stata contagiata, se il ceppo virale è ad alto o a basso rischio di sviluppare un tumore al collo dell’utero…

In realtà l’osservazione che a noi interessa sottolineare è che, in entrambi i casi, l’esito positivo del test è seguito solo da una più attenta osservazione, in attesa di una auspicata “scomparsa” del virus nel corso del tempo, contro una non auspicata evoluzione verso lesioni conclamate. Non si può parlare di prevenzione, perché non esiste alcuna terapia, per la medicina ufficiale, se non quella ablativa.



PREVENZIONE

Oggi si fa un gran parlare di vaccino per l’HPV; da pochi anni è stato reso possibile vaccinare ragazzine di 12 anni gratuitamente con un vaccino tetravalente, contro i tipi 16, 18, 6 e 11.

Stranamente, (o per fortuna), molti pediatri di base si sono mostrati contrari e hanno dissuaso le madri dal far vaccinare le figlie adolescenti.

Senza entrare in merito agli innumerevoli studi sulla validità dello stesso(15)(16)(17) non si può fare a meno di obiettare che, a fronte di una copertura da infezioni dei quattro ceppi suddetti, esiste la seria possibilità, per le ragazze vaccinate, di essere comunque infettate da altri 24 genotipi, 10 dei quali, lo ricordiamo, sono classificati come altamente oncogeni.

Come si può parlare di “vaccinazione”, o meglio di immunizzazione,dunque?


Il sistema VAERS (Vaccine Adverse Event Report System), che raccoglie le segnalazioni di effetti indesiderati durante e dopo una vaccinazione, ha raccolto fino alla fine di febbraio 2008 più di 5.300 reazioni avverse dopo vaccinazione con il vaccino tetravalente Gardasil®, su un totale di circa 8 milioni di dosi vendute. Secondo la Ditta produttrice, il 2-4% di tutti gli effetti indesiderati del vaccino erano effetti gravi, mentre secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) questi effetti ammontavano a circa il 5%. Finora sono stati riportati 10 casi ad esito fatale tra le ragazze/donne vaccinate, ma la Ditta produttrice rassicura dicendo che “gli eventi riportati erano in linea con gli eventi attesi nella popolazione sana”.

La FDA (Food and Drug Administration) ha ricevuto anche 28 segnalazioni di aborto dopo somministrazione del vaccino Gardasil® a 77 donne in stato di gravidanza (28/77: 36%); altre 5 donne hanno registrato danni fetali gravi a carico dei loro feti. (18)


E le conseguenze, che vengono come al solito minimizzate (19), di un possibile mimetismo molecolare e conseguente comparsa di malattie autoimmuni derivanti da tale pratica??

La letteratura internazionale riporta casi di Sclerosi Multipla, Tiroiditi, LES, Uveiti, paralisi, paralisi di Bell (paralisi facciale), sindrome di Guillain Barrè, quali gravi eventi avversi neurologici associati alla vaccinazione con Gardasil. (20)(21)(22)(23)


La questione è quanto mai aperta, considerando, poi, che non esiste un follow-up a lunga distanza che dirimi i numerosi e leciti dubbi.


Un’attenzione particolare va poi riservata al ruolo di altre infezioni sessualmente trasmesse che possono incrementare il rischio di tumore della cervice tra le donne infette da HPV. La Chlamydia trachomatis, è, tra gli agenti esaminati, quella maggiormente incriminata. Studi caso-controllo effettuati negli anni scorsi, che confrontavano i casi di tumore della cervice con soggetti di controllo positivi per la presenza di DNA di HPV a rischio oncogeno, avevano riportato un rischio più elevato nelle donne positive alla Chlamydia trachomatis rispetto a quelle negative.

In un ampio studio di pool analisi, Smith et al. (2004) hanno analizzato 7 studi caso-controllo internazionali di pazienti con tumore della cervice, condotti in diversi Paesi del mondo, pubblicati nel periodo 1992-2001, in relazione al ruolo dell’infezione da Chlamydia trachomatis e rischio di tumore invasivo della cervice tenendo conto dello stato HPV delle donne. Lo studio includeva 1.238 casi e 1.100 controlli e la determinazione degli anticorpi sierici di Chlamydia trachomatis era stata condotta per mezzo della microfluorescenza. Tra i casi ed i controlli HPV DNA positivi, il rischio di tumore invasivo della cervice a cellule squamose era elevato nelle donne sieropositive alla Chlamydia trachomatis (OR=1,8; 95% CI: 1,2-2,7)

L’effetto della sieropositività alla Chlamydia trachomatis, sul rischio di tumore invasivo della cervice a cellule squamose, aumenta con l’incremento del titolo anticorpale della stessa ed era più alto nelle donne di età < 55 anni.(25)


Per quanto ci concerne sappiamo bene come la migliore prevenzione, in risposta ad un’infezione da HPV, sia esso di tipo oncogeno o no, sia la sua negativizzazione in tempi estremamente brevi, con uno o più cicli di Calcarea Carbonica, somministrata unitamente all’anti-recettore del virus, l’antiCD49d, che eliminano la positività all’HPV test nel 100% delle nostre pazienti o, in caso di condilomatosi o lesioni verrucose, di Thuya e Ac. Nitricum, che portano alla regressione delle lesioni e alla completa guarigione.

Un’eventuale co-infezione da Chlamydia trac. può essere a sua volta negativizzata con l’Acidum Nitricum associato all’AntiCD49d, dato che i due agenti infettivi utilizzano lo stesso recettore.

Abbiamo, cioè, tra le mani una potenzialità di cura che non ha pari, che farebbe risparmiare tempo e denaro alle Istituzioni e inutili ansie nonché cure invasive alle pazienti, e che sarebbe ora e opportuno diffondere e far conoscere ai nostri colleghi ginecologi e non. Le uniche a non essere contente sarebbero la Sanofi e la Merck…ma questo è un altro discorso,…..o no?


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Non è tutto oro quello che luccica

Negli ultimi 20 anni è stata dimostrata l’associazione tra virus del papilloma umano (HPV) e tumore del collo dell’utero. Nel 1995 l’OMS dichiara ufficialmente i Papilloma virus agenti carcinogeni.

Con queste premesse, la campagna di vaccinazione anti-HPV promossa lo scorso anno in Italia su tutte le adolescenti dodicenni, età in cui si presume non siano ancora entrate in contatto con il virus, sembrerebbe assolutamente positiva. Ma, c’è un ma, anzi, ce n’è più di uno.

Si sa che il vaccino stimola una risposta immunitaria, ma sulla tossicità di tale stimolazione e i suoi possibili effetti secondari, nessuno parla.

Il principio della vaccinazione di Jenner, antivaiolosa, si basava sul “simile”, ossia si utilizzava il virus del vaiolo di mucca per stimolare nell’uomo una produzione anticorpale efficace e duratura, secondo criteri assolutamente omeopatici, come raccomandato da Hahnemann. E questo è buono.


Diversamente, la stimolazione per nosodi, cioè per “idem” può portare a conseguenze negative molto gravi, quali la comparsa di malattie autoimmuni. Nella fattispecie la presenza di anticorpi contro il ceppo 5 del Papilloma virus, può generare stati autoimmuni della pelle, quali la psoriasi e la displasia verruciforme, oltre a processi di riparazione della cute abnormi, quali i cheloidi e financo tiroiditi.

Queste considerazioni da sole dovrebbero far riflettere sulla opportunità di vaccinare delle adolescenti. Ma non basta.


Consideriamo infatti i ceppi utilizzati per la immunizzazione: il vaccino Gardasil è costituito unicamente dalle proteine virali dei ceppi 6-11 (correlati ai condilomi) e 16-18 (correlati ai carcinomi), con la pretesa, così da conferire immunità anticorpale. E gli altri ceppi oncogeni? Ce ne sono almeno altri cinque.

Altra questione fondamentale: come è stato possibile controllare la effettiva efficacia immunizzante del Gardasil e/o del Cervarix ? Sappiamo che le dosi devono essere ben tre, con un calendario molto simile a quello della epatite B. In base a quali valutazioni sono raccomandate tali somministrazioni? Se sono necessarie tre dosi, evidentemente il potere immunogeno del vaccino è piuttosto scarso, ammettendo, tra l’altro, che i controlli siano stati corretti.


Le scelte di politica sanitaria dovrebbero sempre tutelare gli interessi dei singoli: allora, se si ritiene così indispensabile praticare il vaccino anti-HPV, per quale motivo non lo si rende obbligatorio?

E per ultimo, ma non meno importante, la “gratuità” della immunizzazione, che non viene elargita per motivi umanitari dalla multinazionale che la produce, ma, al contrario viene profumatamente pagata dal Servizio Sanitario Nazionale, ossia da tutti noi. In conclusione, quindi, 3 dosi per un’azione immunogena incompleta, ma con sicura efficacia economica per chi produce il vaccino.


C’è di che riflettere, non vi pare?….

Ma allora che fare?”

Da madre di una figlia adolescente, oltre che da medico, dico: anche di fronte ad un’eventuale positività al test per l’HPV, con l’omeopatia e i suoi rimedi specifici si può eliminare la patologia, immunizzandosi per tutta la vita, e senza effetti collaterali.

Non dimentichiamoci mai che prevenire è meglio che curare, non vaccinando, bensì educando i nostri figli secondo quei valorii che sembrano essere sempre più dimenticati. Non abbiate paura di dire a vostra figlia “il tuo corpo è sacro, non buttarlo via”.


Una recente statistica, curata dal Ministero della sanità, ha accertato che l’80% delle donne italiane, in età fertile, manifesta, in media quattro volte l’anno, una infezione da Candida.


La manifestazione più comune di questa infezione, troppo spesso sottovalutata, è una vulvo-vaginite, accompagnata dai classici sintomi di prurito, infiammazione, secrezione bianco-caseosa e dispareunia (rapporti sessuali dolorosi).

Disturbi metabolici,diabete, ipertiroidismo,alcolismo, pillola anticoncezionale, sono terreni che ne favoriscono l’insorgenza. Artriti reattive, asma,allergie, malattie autoimmuni, possono invece esserne la ben più grave conseguenza. Per questo motivo la Candida è un nemico pericoloso.


L’alta frequenza di tale patologia fa sì che, invece, questa infezione venga considerata quasi “normale”, di scarsa importanza, così che il ginecologo, una volta diagnosticata, si limita alla prescrizione di antifungini, sotto forma di compresse e/o creme locali, che sembrano, a volte, risolvere il problema momentaneamente, ma che sempre più spesso, invece, risultano inefficaci. I comuni antifungini, infatti, non solo non eliminano l’agente patogeno, ma, al contrario, inducono addirittura lo sviluppo di resistenze.

E’ importante, invece, sapere che una candidosi a livello vaginale, nella maggioranza dei casi, può essere il segnale d’allarme di un’interessamento sistemico.


Questo “banale” lievito è infatti in grado di produrre ben 80 sostanze tossiche, altamente aggressive nei confronti di molte nostre strutture organiche, quali, ad esempio, il sistema osteo-articolare, dando dolori e rigidità articolare o il sistema nervoso centrale, inducendo sintomi come ansia, depressione, attacchi di panico, palpitazioni, vertigini, cefalee, che vengono poi diagnosticati erroneamente come disturbi della sfera psico-emotiva.


La Candida è presente, come saprofita, nel nostro intestino. La sua concentrazione è mantenuta ad un livello ottimale dall’azione di batteri, tipo il Lactobacillus acidophilus, e dal pH intestinale, che da acido nello stomaco, diviene sempre più neutro ( intorno a 7) nei segmenti inferiori dell’intestino tenue, per poi tornare acido nel colon-crasso.


L’uso di antibiotici anche per le più banali patologie, aggredendo indiscriminatamente tutti i batteri presenti nell’organismo, anche quelli della microflora intestinale, contribuisce ad una maggior crescita di batteri anaerobi, ad un viraggio, quindi, del pH verso l’acidità e, di conseguenza, ad un abnorme crescita dei lieviti. Si pensi che 7 giorni del più comune antibiotico, l’Amoxicillina, portano la carica fungina intestinale dal 4% al 70%!

Ma anche l’alimentazione svolge un ruolo fondamentale nell’instaurarsi di una Candidosi sistemica.

La sempre minor utilizzazione di cibi crudi, a favore di cibi cotti, che rendono l’ambiente intestinale acido, così come il consumo eccessivo di merende, merendine, dolciumi, bibite zuccherine contribuiscono ad abbassare il pH, favorendo una selvaggia riproduzione dei lieviti.


Cosa fare, quindi, per debellare questo nemico così subdolo e poco conosciuto?

Una volta accertata l’infezione, tramite specifici esami sulle feci e nel sangue, questa va affrontata a più livelli. La presenza di titoli anticorpali nel siero richiede una terapia adeguata, per la loro negativizzazione, con farmaci omeopatici specifici. A secondo dei sintomi prevalenti si useranno Sulfur, Sepia, o Natrum Muriaticum.

Contemporaneamente si aggredirà il fungo con dosi ponderali di fitofarmaci, secondo un preciso protocollo, perfezionato dal dottor Marco Mancini.


Un controllo finale sulle feci e sul sangue evidenzierà l’avvenuta guarigione.

L’eliminazione del fungo non è cosa semplice, richiede tempo e grande impegno, ma i benefici ottenuti e soprattutto la prevenzione di complicanze più gravi ci ripagheranno ampiamente in termini di salute generale.


Negli ultimi dieci anni è divenuto chiaro che l’espressione clinica della malattia celiaca è più eterogenea di quanto si pensasse in passato. Sebbene sia una malattia relativamente frequente (1/150), viene diagnosticata solo in una piccola percentuale di adulti, rispetto alla situazione reale, poiché spesso si manifesta con pochi sintomi, in forme atipiche o completamente silenti.(1)

E’ ormai assodato, ad esempio, che la malattia celiaca può influire sull’apparato riproduttivo umano, sia maschile che femminile, dando luogo a manifestazioni che possono essere le uniche avvisaglie della malattia.(2)

Nella donna la varietà dei sintomi va dal ritardo nella comparsa del menarca, amenorrea secondaria, precoce menopausa (3), ad endometriosi (4), infertilità (5), difficile attecchimento dell’ovulo fecondato, che induce ad aborti spontanei entro la terza settimana di gravidanza, o, qualora la gravidanza continui, placenta previa, parti prematuri, neonati di peso inferiore alla media e ridotta durata dell’allattamento al seno (6).

Nell’uomo può manifestarsi con ipogonadismo, immaturità dei caratteri sessuali secondari, ridotta qualità del seme (7) e/o infertilità.

Tra le patologia sopra riportate la più invalidante, per il sesso femminile, è senza dubbio l’endometriosi.



Endometriosi

L'endometriosi è una condizione caratterizzata dalla presenza di tessuto endometriale in sedi dove esso, normalmente, non dovrebbe esserci, cioè al di fuori dell'utero. Viene perciò chiamato endometrio ectopico. Esso subisce, durante l'arco del ciclo mestruale, ad opera degli ormoni prodotti dall'ovaio, le stesse modificazioni dell'endometrio uterino (fase proliferativa, secretiva, sfaldamento mestruale); l'endometriosi è quindi, soprattutto, una patologia della donna in età fertile, e regredisce in menopausa. Distinguiamo un'endometriosi interna o adenomiosi, quando l'endometrio ectopico è localizzato nello spessore del miometrio, ed una endometriosi esterna quando l'endometrio ectopico si localizza nella pelvi (nelle ovaie; tra retto ed utero; tra retto e vagina; alle tube di Falloppio; in vescica; uretere o nella porzione sigma del colon) o, più raramente, fuori della pelvi (ombelico, vagina, vulva, cicatrici di interventi chirurgici sulla pelvi, appendice, polmoni, cute)


L'endometrio è il rivestimento più interno dell'utero, ed è formato da un singolo strato di cellule colonnari dotate di ciglia, al di sotto delle quali si trovano vasi sanguigni, linfatici e ghiandole che producono muco. Per l'influenza degli estrogeni e del progesterone, secreti dall'ovaio durante il ciclo mestruale, l'endometrio va incontro a regolari modificazioni cicliche, in modo da offrire un ambiente adatto all'impianto di un embrione.


L'endometriosi interessa quasi esclusivamente donne in età fertile, con picco tra i 30 ed i 40 anni. La prevalenza nella popolazione femminile in età fertile è di circa il 10-15%. Nelle donne sterili la prevalenza dell'endometriosi è molto più elevata.

Questo potrebbe essere l’anello di congiunzione tra questa patologia e la malattia celiaca, avvalorando una delle ipotesi etiopatogenetiche proposte negli ultimi anni da numerose ricerche scientifiche (4)(5)(9)

La patogenesi dell’endometriosi non è ancora completamente nota, infatti, e molte sono le teorie proposte per spiegarne l’etiologia.


Teoria metastatica, o del trasporto retrogrado tubarico: gruppi di cellule dell'endometrio, che si sfaldano durante le mestruazioni, possono refluire attraverso le tube di Falloppio e disseminarsi nella cavità addominale. Da qui, sarebbero in grado di impiantarsi nel peritoneo (la membrana che riveste la cavità addominale e tutti gli organi contenuti al suo interno), dando origine ad "isole endometriosiche". Questa ipotesi è avvalorata dal fatto che le sedi di maggior frequenza dell'endometriosi sono le tube, le ovaie e lo scavo del Douglas (incavo creato dallo spazio tra la parte posteriore dell'utero e la parte anteriore del retto).


Teoria dell'impianto iatrogeno: è stata dimostrata la possibilità di impianto di endometrio sulle cicatrici chirurgiche dopo un taglio cesareo o dopo un intervento chirurgico di isterectomia.


Teoria dell'alterazione immunitaria endoperitoneale: le cellule endometriali refluite in cavità addominale al momento della mestruazione sono normalmente riconosciute come estranee dal sistema immunitario e pertanto eliminate. Un'alterazione di questo meccanismo determinata da una predisposizione genetica, consentirebbe ad alcune cellule di sopravvivere e moltiplicarsi


In un recentissimo studio del Marzo 2013 è stata descritta la presenza di endometrio ectopico in un numero consistente di feti femmina, analizzati mediante autopsia, il che confermerebbe l’ipotesi che l’endometriosi possa essere generata da difetti del processo di organogenesi dell’apparato riproduttivo femminile (10)

La malattia celiaca induce un malassorbimento, con conseguente deficit di micronutrienti, come il ferro, l’acido folico e la vit.K, essenziali per l’organogenesi (11).

Il deficit di vit.D può influenzare la steroidogenesi degli ormoni sessuali, estradiolo e progesterone (12). E’nota l’azione dei due ormoni nella regolazione della secrezione delle gonadotropine, preparazione dell’endometrio all’annidamento dell’ovulo fecondato e al mantenimento della gravidanza. Il progesterone gioca un ruolo fondamentale nella genesi e mantenimento di patologie uterine come l’endometriosi. E’ stato infatti dimostrato come l’endometrio normale sia una mucosa contenente cellule stromali che esprimono largamente il recettore per il progesterone (PR), mentre il tessuto eutopico ed ectopico endometriosico non risponde sufficientemente allo stesso, è progesterone-resistente, cosa che ne favorisce la relativa proliferazione e sopravvivenza. (13)

Inoltre, dato non ultimo per importanza, uno studio condotto su 207 pazienti affette da endometriosi severa, sottoposte a dieta priva di glutine per 12 mesi, ha riportato un miglioramento dei sintomi dolorosi nel 75% dei casi trattati.(14)



Per quanto riguarda le altre anomalie della riproduzione correlate alla celiachia, il deficit di Zinco che tale patologia comporta può indurre malformazioni fetali, come cheilo e palato schisi (15), ritardo di crescita intrauterina, parti prematuri, morti perinatali.

Un incremento di tale sostanza riduce la frequenza di tali patologie.(16)

La carenza di vitamina D, oltre all’importante ruolo già sottolineato della regolazione della steroidogenesi, è coinvolta nella genesi della sindrome dell’ovaio policistico (PCOS)

Donne affette da PCOS mostrano bassi livelli di 25-idrossivit.D, la supplementazione della quale migliora la regolarità del ciclo mestruale e i disturbi metabolici correlati.(12)


La conclusione di molti degli articoli riportati in bibliografia e di molti altri consultati nella bibliografia internazionale è la raccomandazione, più che condivisibile, di ricercare un’eventuale celiachia in pazienti con disturbi della riproduzione, attraverso la positività sierologica agli Ab anti tranglutaminasi IgA, anti gliadina IgA e IgG e/o anti endomisio IgA,(17), e instaurare, quindi, una dieta priva di glutine nei casi accertati.

Nessuno dei lavori consultati prende in considerazione la “gluten sensitivity”, cioè l’espressione di una ipersensibilità al glutine che, pur in assenza di auto anticorpi, si manifesta esattamente con la stessa sintomatologia della malattia celiaca, ivi comprese le manifestazioni extra intestinali argomento di questo articolo. Nella pratica quotidiana questa realtà è, invece, sempre più evidente.

Ho trattato personalmente numerosi casi di pazienti femmine, in età riproduttiva, con problemi di infertilità, storia clinica di aborti spontanei ripetuti o gravidanze extra uterine, con una predisposizione genetica alla celiachia, confermata dalla tipizzazione immunogenetica HLA DR e DQ, ma con una sierologia negativa per auto anticorpi, le quali, dopo un medio-lungo periodo di dieta priva di glutine, oltre, ovviamente, alla negativizzazione dei titoli anticorpali che più frequentemente innescano tale patologia, hanno portato felicemente a termine una gravidanza senza problemi.


Bibliografia

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