11 giugno 2016
“ La malattia è una risposta”. A noi, che da anni ci occupiamo di malattie croniche seguendo un ben preciso metodo di studio, questa affermazione appare chiara e, oserei dire, scontata, ma non è così per la classe medica tradizionale, la quale si ostina a interpretare il sistema immunitario esclusivamente come il meccanismo in grado di difendere il nostro organismo dall’assalto di invasori esterni, siano essi virus, batteri o altro. L’entità della malattia dipenderebbe da una parte dall’aggressività dell’invasore, dall’altra da una scarsa efficienza del sistema di difesa. Frasi tipo: ”ti sei ammalato perché le tue difese immunitarie erano basse” sono all’ordine del giorno, anche in bocca a personaggi autorevoli… Niente di più falso; a parte il fatto che un abbassamento delle difese immunitarie si può manifestare solo in un malato di AIDS, o in individui sottoposti a chemioterapia e/o a terapie con immunosoppressori, è vero proprio il contrario: noi ci ammaliamo quando il nostro sistema immunitario, a contatto con un agente patogeno esterno, lo riconosce come aggressore e tenta di eliminarlo, svolge cioè pienamente la funzione che gli compete, per la quale è stato programmato. La manifestazione di una patologia in termini più o meno gravi non dipende dal grado di aggressività dello stimolo esterno, né tantomeno dall’inefficienza del sistema difensivo, bensì dalla modalità della risposta individuale. Ecco perché la malattia è una risposta, perché se il nostro sistema di difesa non riconoscesse l’agente patogeno, non risponderebbe, e l’agente patogeno non esisterebbe più in quanto tale. Perché durante una epidemia di influenza, ad esempio, ci sono persone che non si ammalano, pur entrando in contatto certo con il virus? Un agente infettivo per diventare patogeno nell’organismo deve potersi legare ad un recettore. Se il recettore non c’è, non c’è patologia, ma anche se c’è non è detto che il sistema sappia “leggerlo”: dipende dal nostro determinante di suscettibilità o di resistenza a quel determinato agente patogeno, dipende dal nostro HLA (Human Leucocyte Antigen). Sul ramo corto del cromosoma 6, in posizione telomerica, è espresso il nostro sistema di istocompatibilità, HLA appunto, un gruppo di geni che gestisce le risposte del sistema immunitario alle infezioni di virus e batteri. Le lettere maiuscole definiscono i loci, ove si trovano i singoli geni. Distinguendo tali loci in classi, troviamo: classe I: A, B, C, E, G; classe II: DR, DQ, DP. Nell’ambito dei loci si distinguono, poi, i geni specifici (es.: DR1, DR3, DR4, etc.), i quali si trovano in forma allelica. La tipizzazione sierologica si limita alla distinzione dei geni specifici, mentre quella molecolare, tramite PCR, permette l’identificazione dei singoli alleli, uno materno, l’altro paterno.(es: DR *04,01) Le molecole codificate dai geni di classe I consistono di una catena pesante Alfa, che si lega a una catena leggera, denominata Beta2-microglobulina Le molecole di classe II sono eterodimeri, costituiti da una catena Alfa, assemblata a una catena Beta. I geni che codificano per le due catene, dunque, sono diversi, anche se situati nello stesso locus. L’HLA di classe I, locus A, B e C è presente alla nascita, e consente al neonato di difendersi da aggressioni tumorali e di legare gli antigeni dello Streptococco; l’HLA di classe II, locus DQ e DR, si esprime via via che il bambino entra in contatto con agenti infettivi e assume, cioè, la sua individualità biologica. La risposta a stimoli esterni, di qualunque natura essi siano (chimici, fisici, infettivi) comprende due fasi, una innata, l’altra acquisita, una non cognitiva, l’altra sì. La prima è aspecifica, volta ad eliminare lo stimolo estraneo attraverso l’infiammazione, risposta fissa e programmata, uguale per tutti gli individui perché fa parte di un bagaglio genetico dell’intera specie umana, accumulato nei millenni per l’adattamento all’ambiente. E’ la “percezione” di un batterio a distanza da parte di un macrofago o di una cellula dendritica e la successione di eventi a cascata che ne consegue, con produzione e immissione in circolo di citochine. A questa si devono i sintomi prodromici (febbre, artralgia, malessere, cefalea) tipici di qualunque infezione. Per fare un esempio, la sintomatologia d’esordio di un’influenza non è dovuta al virus influenzale, ma alla produzione di una citochina, il TNF. Essendo comune a tutte le infezioni, non è possibile, in questa fase di risposta distinguere la malattia infettiva in corso. I sintomi di stato compaiono solo nella seconda fase, detta adattativa o specifica, mediante un processo molto più impegnativo, che trova nel linfocita il soggetto principale; questa si realizza solo quando l’antigene viene processato e presentato nel contesto delle molecole HLA da una cellula presentante l’antigene (APC). Fig.3 Tra queste le più importanti sono le cellule dendritiche, di origine centrale midollare, o periferica, monocitaria, cellule molto mobili, dotate di sensori estremamente sensibili all’intercettazione di materiale estraneo, che, entrato in contatto con l’organismo, viene immediatamente “captato” e inglobato nelle cellule stesse, processato, cioè frammentato in una serie di piccoli peptidi che vengono letti da molecole HLA che li presentano alla superficie della cellula, nei linfonodi, al linfocita naif (vergine) che possiede il recettore per quell’antigene. Questo porta alla clonazione di tale linfocita in tanti linfociti uguali, capaci di rispondere allo stesso antigene. La risposta linfocitaria è individuale, è specifica, cioè risponde ad un solo antigene, e solo a quello. Da qui prenderà il via la risposta umorale o cellulare, a seconda del tipo di antigene che l’ha sollecitata, e si differenzieranno anche quei linfociti depositari della memoria, T o B, che conferiranno uno stato di immunità permanente. Possiamo affermare, quindi, che il sistema immunitario non è un semplice “sistema di difesa” ma un complesso sistema d’interazione con l’ambiente che ci circonda. Se non c’è risposta, non c’è malattia; se non c’è risposta vuol dire che mancano le molecole HLA in grado di generarla. In questo caso non è che l’antigene non venga processato, il ruolo della cellula dendritica, o chi per essa, rimane invariato, ma se presenta l’antigene in mancanza di una molecola HLA il linfocita non lo “leggerà”, non ci sarà risposta, e quindi non ci sarà malattia. Pensiamo solo a quel 10% della popolazione, apparentemente in buona salute, che è “non responder” per l’epatite B. Malgrado dosi ripetute di vaccino antiepatite B non sviluppano Ab anti HBs, perché mancano i presupposti immunogenetici per la lettura dell’antigene nel contesto di quelle particolari molecole HLA che inducono l’attivazione linfocitaria. L’antigene, poi, può essere presentato da quasi tutte le cellule dotate di nucleo, ivi comprese le cellule bersaglio di determinati antigeni. Tornando all’esempio dell’ Epatite B, il virus entra in circolo, viene intercettato dai monociti circolanti, che diventano cellule dendritiche, internalizzato, processato e presentato al linfocita specifico, che si clona, si attiva. Ma sull’epitelio della cellula epatica è presente il recettore specifico per il virus, il CD81, che permette all’epatocita di legarlo, processarlo e presentarlo all’esterno della membrana; ecco che i linfociti attivati andranno ad aggredire l’epitelio epatico, dando luogo al danno d’organo, la necrosi epatica, con tutti i sintomi che ben conosciamo. A questo punto è chiaro che STIMOLO = AGENTE INFETTIVO, RISPOSTA = ATTIVAZIONE LINFOCITARIA. Le malattie sono acquisite, determinate da una nostra capacità di risposta ad uno stimolo. Ora, se per una malattia acuta questo binomio stimolo-risposta è abbastanza semplice e direi quasi intuitivo, pensiamo solo alle malattie esantematiche tipiche dell’infanzia, laddove ad uno specifico stimolo infettivo corrisponde una specifica risposta sintomatologica, uguali per tutti gli individui, la questione si complica quando consideriamo una malattia cronica; nella malattia cronica il tempo di latenza tra infezione e risposta può dilatarsi enormemente; tra l’infezione e la manifestazione della malattia possono passare anche decenni. Come può essere possibile? Per quella capacità meravigliosa da un lato e terribile dall’altro, una vera e propria funzione intellettiva, che una parte dei linfociti possiede: la memoria. Questo è il modello di studio attuale e inedito di una malattia cronica: ad un evento remoto, ben riconoscibile per la sua sintomatologia, fa’ seguito un coinvolgimento clinico sempre più evoluto, che porta, nel tempo, alla manifestazione clinica di una patologia più importante, più grave, molto spesso di tipo autoimmune. Nella malattia cronica, contrariamente alla malattia acuta, i sintomi si fanno variegati e peculiari, variabili da individuo a individuo. Ma un’approfondita indagine anamnestica consente al medico attento di evidenziare il momento preciso, nella storia clinica del paziente, nel quale si è verificato quello che noi chiamiamo un innesco, che è sempre di origine infettiva e dal quale il fenomeno inizia ad evolvere. L’indagine anamnestica ha un ruolo chiave nella comprensione del fenomeno patologico cronico, e sgomenta il fatto che la medicina moderna vi presti sempre meno attenzione, abituata ormai ad accettare un arco temporale ampio ed evolutivo nel rapporto causa-effetto solo nella psicologia relazionale. Buona parte della comunità medica, infatti, e includo anche e soprattutto medici omeopati, non ha difficoltà ad ammettere che un evento remoto, ad esempio un conflitto psichico, possa generare nel tempo fenomeni morbosi anche complessi; le difficoltà insorgono quando si recupera una correlazione infettiva tra sintomi attuali e stimoli remoti. Per quanto prima enunciato, la nostra costituzione immunogenetica, specifica e individuale (non esistono due HLA uguali, se non in gemelli omozigoti), è un fattore predisponente necessario ma non sufficiente per il determinismo della patologia. Perché questa si manifesti è indispensabile uno stimolo innescante, infettivo, e la cosa straordinaria è che la medicina accademica riconosce questi stimoli, solo che non ne tiene conto, perché dispersi nel tempo, dimenticando che una delle capacità del sistema immunitario è proprio il mantenimento di una memoria, che si traduce in mantenimento di una risposta. Le malattie croniche sono dovute alla memoria dei linfociti citotossici. Prendiamo ad esempio la risposta immunitaria contro l’Epstein Barr virus, un virus molto comune, se pensiamo che il 90% circa della popolazione ha sviluppato una mononucleosi, a volte senza neppure rendersene conto, nel corso della vita. Ebbene la risposta anticorpale all’EBV può determinare, nell’ambito di un HLA DR1 e/o DR4, un’Artrite Reumatoide, malattia cronica autoimmune, attraverso un meccanismo di similitudine molecolare tra una glicoproteina del virus (Gp110)e il DR4 stesso, fortemente espresso sulle membrane sinoviali. QRRAA (DR1-DR4)-----QKRAA(Gp110 capside EBV) I linfociti attivati dirigono quindi la loro aggressività verso strutture del sé biologico, in questo caso condrociti e sinoviociti, dando luogo alla manifestazione sintomatologica tipica di dolore, rigidità articolare, versamento, culminante nel danno d’organo, l’erosione cartilaginea e la formazione del panno sinoviale. Il molecular mimicry, ben conosciuto in immunopatologia reumatologica, si basa su un criterio di similitudine strettamente omeopatico. Questa impostazione permette di comprendere il significato profondo e attuale del modello omeopatico di malattia cronica, per il quale uno stimolo infettivo specifico agirebbe sulle costituzioni individuali, assimilabili all’immunogenetica o HLA, determinando sintomi evolutivi. Senza addentrarmi in questo discorso, che verrà ampiamente approfondito dalle relazioni che seguiranno, tengo a sottolineare l’importanza fondamentale di un metodo di studio, che consente di affrontare agevolmente qualunque tipo di malattia cronica, considerata dalla medicina accademica con una sorta di ineluttabilità, non solo come possibilità terapeutica, ma anche come possibile prevenzione. Ad esempio, eliminare una risposta citotossica verso non solo l’Epstein Barr virus, ma anche verso Coli patogeni, Proteus mirabilis, Parvovirus B19, Borrelia Burgdorferi, agenti infettivi che, possedendo tutti una sequenza aminoacidica simile all’HLA DR4, sono potenzialmente in grado di scatenare una risposta autoimmune, in un individuo che non ne ha ancora manifestato i sintomi, perché magari ancora molto giovane, significa prevenire la possibile insorgenza, nel corso della sua vita, di un’Artrite Reumatoide. Questo è l’obiettivo che la medicina omeopatica riesce a raggiungere: eliminare, quando ancora è possibile, o bloccare l’evoluzione di una malattia cronica, in perfetta sinergia con la medicina accademica, anzi, sfruttando al meglio le informazioni e gli strumenti diagnostici che questa ci offre, secondo quel concetto di medicina integrata che dovrebbe ormai essere universalmente accettato e condiviso. BIBLIOGRAFIA 1) Abbas, Lichtman e Pillai, Immunologia cellulare e molecolare, Milano, Elsevier, VII edizione, 2012 2) Charles A. Janeway, Paul Travers, Mark Walport, Mark J. Shlomchik, Immunobiologia (3ª edizione italiana) Padova, Piccin, 2007 3) Immune Netw. 2014 Feb;14(1):7-13. Potential role of bacterial infection in autoimmune diseases: a new aspect of molecular mimicry. Alam J1, Kim YC1, Choi Y1. 4) Curr Genomics. 2007 Nov; 8(7): 453–465. The HLA Region and Autoimmune Disease: Associations and Mechanisms of Action S.C.L Gough and M.J Simmonds 5) Transpl. Immunol. 2005;14:175–182. 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